L’alba nera del 18 Gennaio 2030
Erano le 5:43 del mattino del 18 Gennaio 2030, quando una tremenda detonazione squarciò il silenzio dell’Oceano Pacifico, scuotendo i sismografi di tutto il pianeta. L’eruzione esplosiva che ebbe origine sull’isola vulcanica di Tefara, un arcipelago fino ad allora pressoché sconosciuto situato a metà strada tra Nuova Zelanda e Cile, fu classificata sin dalle prime ore come evento VEI 8, la massima intensità nota nell’indice di esplosività vulcanica. L’ultima volta che la Terra aveva assistito a un simile cataclisma risaliva a 640.000 anni fa, con la supereruzione di Yellowstone.
Tefara, l’isola che ora non esiste più, si disintegrò nell’arco di pochi minuti, liberando in atmosfera una quantità senza precedenti di cenere vulcanica, gas solforosi e particolato microscopico. Una colonna piroclastica alta oltre 50 chilometri perforò la stratosfera, creando uno spettacolo tanto magnifico quanto mortale. Dalle immagini satellitari si osservò un’enorme ombra circolare proiettarsi sull’oceano, mentre anelli concentrici di polveri sottili cominciavano ad avvolgere l’intero emisfero sud.
I primi giorni: confusione e silenzio
Nei giorni successivi, la priorità fu comprendere l’entità del disastro. Le autorità locali, così come l’Organizzazione Meteorologica Mondiale e il Centro Vulcanologico Internazionale, si affrettarono a inviare droni, aerei e sonde per analizzare l’atmosfera. Le prime stime rivelarono che oltre 5.000 chilometri cubi di materiale piroclastico erano stati espulsi, con centinaia di milioni di tonnellate di anidride solforosa sospese nell’alta atmosfera.
Il sole, filtrato da un velo grigio-ocra, perse intensità. In Australia, in Argentina, e perfino sulle coste del Giappone, il cielo si fece plumbeo. Nei primi dieci giorni, le temperature medie cominciarono a scendere di 2-3 gradi Celsius anche nelle aree tropicali, dove normalmente Gennaio è estate.
La notizia esplose ovunque. I titoli dei giornali riportavano frasi come “Il mondo verso un lungo inverno”, “L’anno senza sole”, “Un nuovo impatto globale come nel 536 d.C.”. Ma allora nessuno immaginava quanto profonda e duratura sarebbe stata la conseguenza.
Inizio Febbraio: la luce si attenua
A Parigi, Roma, Vienna, il cielo si fece color piombo. Le giornate sembravano al crepuscolo anche a mezzogiorno. Le radiazioni solari dirette diminuirono di oltre il 70%. Le coltivazioni in serra, che dipendono dalla luce naturale, iniziarono a mostrare segni di arresto nella fotosintesi.
I voli commerciali furono sospesi per settimane sopra l’Europa meridionale a causa della presenza di microcristalli di vetro vulcanico nei livelli atmosferici superiori. Le compagnie aeree parlarono di “emergenza continua”, mentre le assicurazioni rifiutarono ogni tipo di rimborso per eventi “di forza maggiore geofisica”.
Nel Regno Unito, una fitta nebbia giallastra avvolgeva Londra. A Madrid, la temperatura massima giornaliera non superava i 4°C, un’anomalia totale per il clima spagnolo. Intanto in Norvegia, i porti ghiacciavano ben prima della norma, e il commercio via mare fu rallentato bruscamente.
L’Italia tra paura e immobilità
In Italia, l’inquietudine si mescolava a un’iniziale incredulità. Il Centro Nazionale delle Ricerche (CNR) pubblicò uno studio il 7 Febbraio che prevedeva una “primavera anomala con temperature medie inferiori ai 5°C su gran parte della Penisola”. Le Prealpi Lombarde si coprirono di neve persistente, mai scioltasi nemmeno nei rari giorni di sole. A Milano, le temperature minime toccarono i -10°C per diverse notti di fila.
A Napoli, il Vesuvio fu osservato con crescente ansia. Nonostante non mostrasse segni di attività diretta, la popolazione locale temeva che la risalita di pressione nel mantello terrestre, provocata dal gigantesco scambio energetico legato a Tefara, potesse innescare reazioni a catena in altri vulcani del Pianeta.
Il Governo dichiarò lo stato di emergenza climatica il 15 Febbraio. Furono distribuite stufe a pellet, combustibile, coperte termiche e razioni alimentari nelle regioni interne appenniniche, dove si prevedevano nevicate anche fino a Marzo inoltrato. Le scorte agricole furono congelate: l’olio d’oliva, i pomodori, gli agrumi, già minacciati da raccolti anticipati nel 2029 per l’autunno mite, erano destinati a diventare beni di lusso.
Le previsioni e l’incubo della “primavera gelida”
L’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) rilasciò un documento a fine Febbraio che lasciò il mondo senza fiato. Le simulazioni indicavano una riduzione media della temperatura globale di 4-6°C nei successivi 24 mesi, con un picco minimo previsto tra Dicembre 2030 e Marzo 2031. La corrente a getto si era deformata. Il Jet Stream si spezzava, creando anomale incursioni di aria artica su tutta l’Europa.
A Firenze, le mimose non fiorirono. A Torino, i tram gelavano. In Sicilia, i campi di grano rimasero spogli, incapaci di germogliare. In Puglia, i primi casi di collasso di aziende agricole iniziarono a verificarsi a Marzo, per l’impossibilità di ottenere raccolti commercializzabili.
Il Ministero dell’Agricoltura convocò un tavolo straordinario, insieme alla Protezione Civile, per discutere di piani di razionamento alimentare. L’Italia, come l’intera Europa, stava entrando in un’epoca che molti iniziarono a chiamare con timore: “l’inverno che non finirà”.
Il mondo si spegne: blackout e silenzi
Con l’arrivo di Marzo, e l’improvvisa espansione della calotta artica verso sud, cominciarono i primi blackout elettrici di lunga durata. L’energia solare era praticamente inutile. Le centrali eoliche, a causa delle turbolenze atmosferiche caotiche, subirono guasti continui. Il consumo di gas aumentò vertiginosamente, portando a razionamenti decisi a livello europeo.
Nel Centro di Roma, migliaia di famiglie ricevevano solo quattro ore di riscaldamento al giorno. A Berlino, i tram elettrici circolavano a intermittenza. A Mosca, i termosifoni funzionavano solo in alcuni distretti. Perfino le metropoli cinesi, pur protette da reti logistiche più robuste, furono costrette a ridurre il consumo industriale per mantenere in funzione i sistemi domestici di riscaldamento.
I voli internazionali crollarono del 90%. Le spedizioni navali furono ritardate da ghiacci fuori stagione. Gli oceani si raffreddarono di oltre 2°C, alterando i percorsi delle correnti marine, causando la morte di massa di intere specie planctoniche.
La primavera del 2030, quella che doveva segnare una nuova stagione dopo gli equilibri climatici instabili del XXI secolo, si stava preparando a essere il preludio di una nuova era glaciale temporanea. Nessuno, al momento dell’eruzione, avrebbe potuto immaginare quanto rapidamente il Pianeta potesse virare verso l’oscurità. E questo era solo l’inizio.
Nel prossimo articolo: “Marzo 2030: quando l’Europa si coprì di ghiaccio”.
